Quarto Potere di Orson Welles

è difficile avvicinarsi (per lo meno dialogicamente) al nucleo di un film che si basa totalmente sul suo non-avere un nucleo (tematico, comunicativo, concettuale). chi scrive ritiene più opportuno scomporre quarto potere di welles nelle sue stesse scomposizioni, nelle sue cristallizzazioni narrative, nel tentativo di costruire (di far riflettere) un’entità centrale speculare a quella del film stesso: le due potranno somigliarsi quindi non soltanto nell’essere somme di impressioni relativizzanti, ma anche e soprattutto nella loro ineffabilità. qualsiasi altro approccio, fuori-luogo per definizione, si limiterebbe ad essere uno spreco di supposizioni critiche e nulla più – per una volta evitiamolo.

jerry thompson
incaricato di scoprire la verità su un arcano che è da subito più profondo del previsto, il giornalista che muove l’azione del film (ammesso ch’essa non si muova soltanto grazie a kane – un po’ come se la sua morte fosse un lascito consapevole alla struttura del film in cui essa stessa lo esaurisce – o meglio, lo fa esaurire) è da subito un doppio dello spettatore: si muove alla disperata ricerca di una qualche verità riducendosi a scoprire che ogni suo passo in avanti altro non è stato che illusorio, che ogni suo movimento s’è iscritto in un’orbita circolare e non è stato centripeto come previsto. il suo percorso tende all’individuazione di un senso e finisce per esibire una vacuità finalistica: il fulcro del suo svolgimento è proprio la privazione di una meta ultima – è in sé stesso il senso verso il quale si muove. l’indagine diviene, più che una ricostruzione biografica (il segreto di kane diviene non solo un pretesto per una sua scomposizione e ricomposizione post-mortem, piuttosto si rende momento cardine, ragione d’essere vera e propria, chiave di lettura quasi-epistemologica o presunta tale di un’intera esistenza – di un’intera umanità) una disperata ricerca teleologica: nel suo ultimo istante di vita l’ingombrante personalità del magnate vibra d’un fremito inquietante – si svela come la contraddizione che è – ed è proprio questa inquietudine che anima una riflessione quasi vorace, più epistemologica che burocratica (più legata all’individuazione di un’umanità che ad una sua contestualizzazione). jerry thompson si muove per raggiungere un segreto a partire da un dato talmente contraddittorio da essere solo presunto reale (o per un dogmatismo chiuso nell’ottica di una rincorsa instancabile della novità da prima pagina) – del resto neanche si è certi del tutto che kane abbia pronunciato proprio quella parola in punto di morte: l’indagine stessa è una presunzione, in quanto presunzione s’arena e fallisce, in quanto presunzione si rivolta su sé stessa fino alla coscienza ultima della sua impotenza (conscia dei suoi limiti, infine, tace – nonostante si venga a conoscenza della risposta cui thompson non perviene mai, si è ben consapevoli della sua inutilità proprio grazie alla limitazione che questa presunzione ha schiuso nel suo infuocarsi e svanire – e non è un caso che l’arcano venga dato alle fiamme).
la ricerca del giornalista imita quella di chi vi partecipa: siamo noi, del resto, a presumere di scoprire qualcosa in più del personaggio centrale di quarto potere muovendoci verso il significato del fatidico “rosabella” – siamo noi ad essere delusi del risultato in quanto tale e infine a sentirci arricchiti dagli esiti che questa delusione comporta. più che una guida jerry thompson è un alter-ego, uno specchio, un simulacro: non ha volto perché non ha personalità e non dice nulla di sé perché non esiste in quanto tale, è un fantasma che ragiona per congetture e che si muove per azioni semplificate (quasi esemplificative) per giungere infine a conclusioni che delimitano e definiscono in un senso quasi generico più che alienare una qualche presa di posizione personale. non-io spettrale, ironicamente appartenente allo stesso mezzo d’informazione che kane ha padroneggiato in vita (la stampa): rimarcazione teorica per quanto riguarda il mezzo filmico e rimarcazione critica per quanto riguarda le tematiche linguistiche del film, il giornalista è una figura limite, discreta, un avatar che compie un percorso che non porta da nessuna parte, che s’annulla presupponendo l’annullamento di chi vi s’inoltra.

charles kane
la figura centrale di questo gioco, impersonata dallo stesso welles, altro non è che un caleidoscopio privo di un fulcro: un egocentrico, un megalomane, un arrivista, un manipolatore, un’anima sofferente per motivi sconosciuti, un idealista e poi un nichilista, un sognatore e poi un cinico. dal momento in cui il percorso di ricostruzione del giornalista si svela essere privo di un fondamento (cosa sta veramente cercando thompson? cosa significa veramente quella parola?) cessa anche d’avere un senso la triangolazione di questo perimetro d’impressioni, la possibilità stessa d’individuarne un centro: il significato in quanto essenza, in quanto elementarità atomica centrale, non si dà né può darsi. quarto potere è un giallo che non ricerca un colpevole, ma una risposta – dunque si rende conto di non cercare una risposta, ma un significato – dunque si rende conto d’essere immerso in una sfera di segni, di eventi, di simboli, di significanti – dunque annulla l’idea stessa di un’essenza, quindi d’un significato, quindi d’una risposta: essa è l’indagine in sé. kane, al centro di tutto il meccanismo come un demiurgo idiota, è una figura che si carica di valore proprio in virtù della sua insignificanza: è un gigante, un dio, un simbolo politico, una rivendicazione critica, un mostro, un eroe tragico, un maniaco, una summa storica, un’allucinazione onirica. manipola linguaggi per le masse e non si ha ben chiaro se il suo scopo sia quello di fare soldi, di detenere il potere sugli eventi-nel-mondo o di avere una rivalsa su chi l’ha fatto soffrire (il banchiere, che conosce il suo segreto più intimo – il suo passato?). è contraddittorio, è profetico, è spaventoso: crolla e s’annichilisce come gli ideali del sogno americano, s’erge e poi tramonta con la stessa voracità d’un personificato iper-capitalismo, s’apre e poi si richiude come l’esistenza che prende in giro – tutti e nessuno al tempo stesso, ma anche tutte le cose e nessuna nel medesimo istante: welles crea una figura così densa di possibilità, così misteriosa, così apparentemente chiara ma intimamente ricca di contraddizioni e di oscurità da riuscire in un processo apparentemente contraddittorio – innesta la ricerca di un simbolo sopra un simbolo. proprio come i giornali di kane che inseguono una verità ch’essi stessi sovra-strutturano (o strutturano interamente) avviluppandosi nella loro stessa irrealtà (non possono individuare l’essenza di ciò che raccontano essendo ch’è la loro stessa deformazione/edificazione ad essere l’essenza delle loro falsità) quarto potere s’insegue senza trovarsi perché non può trovarsi: si basa su un leviatano che muore e tutto quel che vediamo è nient’altro che li caos lasciato dal buco nero della sua esistenza – kane è come le sue stesse notizie, questo cinema come i suoi stessi giornali – il gioco di simboli e meta-linguaggi è un inganno demoniaco perché incamera (volontariamente o meno poco importa) l’interezza delle riflessioni filosofiche (epistemologiche, ontologiche, ma anche sociologiche, psicologiche, metafisiche) e le svela per ciò che sono: un nascondino demente in cui non si fa che supporre che qualcuno si stia nascondendo mentre probabilmente altro non si è che soli.

rosabella
se il film di welles fosse soltanto un dramma sulla solitudine di un uomo sempre più delirante, la parola ch’egli pronuncia in punto di morte sarebbe un moto nostalgico avvilito, commovente e lacerante verso qualcosa che è andato perduto e che non può in alcun modo essere recuperato: l’innocenza di kane, smarritasi nella neve col ricordo dei suoi genitori. è nel tentativo di recuperare quel momento, quella visione, quell’innocenza che il nostro eroe non farà che avvicinarsi al deterioramento di sé stesso (e della porzione di spazio ch’è in grado di perturbare): l’accumulazione di beni e di alleati lo porta all’isolamento, all’edificazione di un mondo a sé stante che infine si rende la sua stessa tomba. egli muore solo perché è sempre stato solo, perché ha rigettato chiunque volesse avvicinarsi, e del resto candalù gli somiglia sia nella grandezza, sia nella struttura (apparentemente labirintica, magniloquente, buia) sia nella chiusura (il cartello che apre e chiude il film è al di fuori dell’abitazione, ma segna un confine ben preciso che impedisce l’accesso all’uomo che vi abita: è un limite conoscitivo vero e proprio, che peraltro non viene oltrepassato ma sorvolato – non si penetra al suo interno, si ha soltanto l’impressione di farlo – è questo il gioco dell’esistenza per welles). ogni sua conquista, indipendentemente dal suo ambito, si muove nell’ottica di un tentativo di per sé fallimentare di tornare ad uno stato perduto – la stessa morte si chiude in quello stato, ormai talmente ideale da essere una frustrazione tragica.
eppure quarto potere non è un dramma sulla solitudine, o meglio: non soltanto. “rosabella” è un ennesimo inganno: sembra essere la chiave ma non è altro che uno specchio tra tanti. la sua rivelazione non è un colpo di scena dal momento in cui le parole di thompson hanno già archiviato la questione, come un’esequia: qualunque risposta non è tale, ma solo la parte di una risposta ch’esiste soltanto in relazione ad un’inutile domanda. peggio: più che avvicinarsi alla soluzione dell’enigma si fa sì che quell’enigma s’infittisca – e dunque “rosabella” moltiplica i dubbi, piuttosto che dissolverne approssimativamente alcuni.

il film di welles, analogamente, s’infittisce ad ogni rilettura e s’ispessisce ad ogni tentativo di semplificazione: è sfuggevole, è contraddittorio, è crudele, prende continuamente in giro – è un’allucinazione, un incubo, uno sciacallo. forse in fin dei conti non ha significato esso stesso, o dalla possibilità d’un significato non fa che allontanarsi ancora e ancora. questo cinema vibra ancora, ancora scotta, eppure è stato morto fin dall’inizio: è stato scosso da una vampata che ha portato via il suo idolo di carne ed è rimasto sporco della sua cenere in ogni sua piega, in ogni suo anfratto – in ogni sua immagine. qualora si spostasse la cenere con un piccolo pennello, raccogliendola poi con una bacinella, ci si renderebbe conto ch’essa non compone più la figura che un tempo è stata. qualora si spostasse invece la cenere al fine di vedere chiaramente ciò ch’essa nasconde (una superficie qualsiasi: legno, ferro, carta stampata) ci si renderebbe conto che qualsiasi elemento architettonico, qualsiasi sagoma umana, qualsiasi mobile o suppellettile altro non sono che composti interamente di cenere – la vampata è stata soltanto un pretesto, kane un capro espiatorio: quel che è bruciato l’ha fatto a monte di quest’esistenza, a monte di questa morte, a monte di queste possibilità. quel ch’è bruciato ha composto questi oggetti che adesso sono coperti di cenere o di polvere e che infine vengono di nuovo dati a loro volta alle fiamme. quel ch’è bruciato, o ch’è morto – che dir si voglia – brucia ancora e muore ancora, così come queste immagini ancora vibrano. è una sete, una fame, un bisogno, una tragedia: non fa che cambiar nome, perché non ha nome – dal momento in cui l’assume diviene una chiave di lettura (e quindi quarto potere si fa simbolo della modernità cinematografica) ma s’aliena in un simbolo che non incarna, quindi si disattende.

la potenza ultima di questo cinema è proprio questa: spinge l’arcano ad osservarsi rendendolo consapevole della sua stessa vacuità. fa leva su uno struggimento che segue l’umanità da sempre, che da sempre perseguita tutte queste immagini e tutte le immagini, che da sempre edifica i suoi stessi idoli e poi li fa schiantare al suolo con rabbia (qua distillata in un’estetica del delirio, in una vertigine oscura). quarto potere si basa su un’icona gigantesca e la disintegra privandola della sua elementarità: welles è il più consapevole tra gli iconoclasti, benché come tutti non sappia affatto cosa stia distruggendo.

[★★★★☆]


2 risposte a "Quarto Potere di Orson Welles"

  1. Salve Stefano, complimenti per lo splendido saggio su inferno di dario argento che ho appena recuperato. Detto questo vorrei sapere,se è possibile ovvio,i motivi che hanno spinto la redazione della mia rivista cinematografica preferita, specchioscuro,a prendersi una così lunga pausa. Grazie in anticipo e continui così.

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    1. Ciao Vito, grazie mille per i complimenti.
      Lo Specchio Scuro è in pausa per grandi novità in vista, di cui si avranno notizie quanto prima. È un piacere sapere che appassionati lettori attendono il ritorno con trepidazione! Anche noi redattori stiamo facendo di tutto per accorciare i tempi il più possibile 🙂 A presto!

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