Cinema e Capitale

spesso, anzi troppo spesso, il fatto che il cinema sia un’arte ‘di massa’ fa stabilire delle connessioni errate e giungere a considerazioni fuorvianti. spesso, nell’analizzare la tendenza in voga nel cinema contemporaneo post-hollywood, si sente parlare a sproposito di quanto un film sia ‘capitalizzato’, ‘capitalista’, ‘soggetto alle norme del capitale’, quanto certe regie o certi influssi siano ‘capitalizzanti’ e così via. c’è una specie di oscillazione semantica che confonde idee sociali a idee politiche a idee economiche a idee, in questo caso, artistico/epistemologiche, e lungi il qui presente dal pensare che tali oscillazioni semantiche siano di qualche danno (siamo dell'(anti-)idea che non si possano fare danni all’interno del linguaggio) però innegabilmente c’è qualcosa che è frainteso, mal posizionato, mal gestito. in poche parole, pur non generando errori concettuali (che, se ne è già parlato, non sono possibili) si va a denunciando internamente la propria struttura teorica (che vorrebbe essere quella di uno strano criticismo proto-filosofico) come idiosincratica.

e così si arriva a parlare di una prostituzione dell’immagine, di una pornografia capitalizzata, di cinema contemplativo o cinema massificante, mentre tutto quello che si ha tra le mani è semplicemente un meccanismo critico datato (e continuamente datante) che non riesce a rassegnarsi alla sua datazione. si vorrebbe fare critica, si vorrebbe fare sociologia, si vorrebbe fare filosofia, in realtà si opera uno strappo che non è trasversale ai tre ambiti quanto più appartenente ad un piano che li scimmiotta tutti, citandoli appena, e che in fin dei conti è l’unico a ledersi sul serio.

ma arriviamo al dunque: perché non parlare di cinema e capitale? in fin dei conti, verrebbe da dire, il cinema (come l’arte in generale) è in prima istanza società, essendo (come abbiamo già visto) inscindibile (ma anche scisso) dal gesto autoriale ed essendo a sua volta il gesto autoriale scisso (ma inscindibile) dal meccanismo societario che lo partorisce (anzi, che rende possibile il suo parto); e questo pare autorizzare a dire ‘questo film nasce in un determinato periodo storico -societario, ma anche artistico- e dunque internamente a questo periodo assume certi aspetti comunicativi che è il caso di analizzare. nello specifico, un film con un montaggio serrato e delle esplosioni ed un continuo citazionismo ed una continua rimarcata distanza tra fruizione e vissuto può essere categorizzato come espressione del contesto capitalizzato che rende possibile la sua esistenza’, ossia ‘un certo cinema è inevitabilmente fascistizzato, perché non soltanto la società dentro la quale nasce (la massa che lo determina) lo è, quanto forse piuttosto anche perché è lo stesso sviluppo artistico di cui arriva a far parte ad esserlo’. come lo spettro del comunismo sulla società di massa dopo la seconda guerra mondiale, sembra spargersi per questi lidi lo spettro di un conservatorismo massificato e fascista all’interno dei meccanismi di comunicazione cinematografica, che sostanzialmente coincide con un indebolimento dell’ambito dell'”artistico” ed un inspessimento dell’ambito dell'”intrattenitivo” nel gesto del fare (e vivere) il cinema. e quindi sembra che da una parte il cinema si avvicini alla televisione, dall’altra che si avvicini alla pubblicità, dall’altra che si avvicini alla pornografia, dall’altra che cessi semplicemente di essere un metodo comunicativo caratterizzato dall’efficacia che (presumibilmente) in passato ha avuto.

sembra sia non soltanto lecito parlare di cinema in questi termini, ma addirittura che sia più critico, profondo e valido rispetto al parlarne in altri termini. e non si fraintenda, effettivamente una critica teoretica (pur partitica) di questo genere è senza ombra di dubbio su di un livello ben diverso rispetto alla mera critica tecnica. ha più senso parlare di capitalismo ed intenti comunicativi involontari (societari) che di bella fotografia, belle inquadrature o bravi attori. però si deve sempre fare attenzione a non rendere la propria critica un edificio instabile ed esclusivamente polemico o partitico, o alternativamente specificarlo come tale piuttosto che pretendere di produrre qualcosa di ‘sincretico’, critico (pseudo-oggettivista) o simili e poi arrivare a parlare di cinema e comunicatività sociale (con tutte le deformazioni del caso).

eliminiamo una parte del dibattito: si potrebbe dire ‘è sbagliato parlare di cinema in questi termini perché il cinema è in prima istanza un’immagine che non è atta a comunicare altro che sé stessa’. questo è corretto da un certo punto di vista ma errato da un altro: il cinema è un linguaggio e come tale (anche nell’esposizione di un’immagine) include cose che sono ‘altre’ dallo strumento linguistico proprio. dunque sì, si parla per immagini, ma quelle immagini sono già altro da sé; includono, per così dire, il mondo che le circonda nell’atto stesso della fruizione (che è, per definizione antropocentrica, interpretazione). dunque osservo, interpreto (anche cercando di non interpretare) e quell’interpretazione regala ‘altro’ all’immagine, ‘altro’ che è già presente nell’immagine. la politica, la società, la comunicazione manifesta ma anche non-manifesta sono già nell’immagine dal momento stesso in cui la sto osservando. quindi prendiamo il presupposto di una critica del genere, ma valutandola come ribaltabile ed annullabile, e procediamo come se già fosse annullata: di fatto questa parte di dibattito non è presente nel tipo di critica di cui si va parlando, ed utilizzarla come una critica sarebbe come mescolare più linguaggi e non porterebbe da nessuna parte. parliamo piuttosto nell’ottica di una di queste critiche ad una ‘fascistizzazione del cinema’ come fosse un paradigma corretto, e mostriamo quanto non sia corretto a partire dalle sue stesse fondamenta.

che cosa si sta, di fatto, criticando? mi piace il parallelismo che ho letto, in un articolo che ho anche commentato (non so se il commento abbia oltrepassato il vaglio della moderazione) tra pornografia e ‘capitalizzazione’. in attesa che il commento venga moderato, lo allego qua per introdurre l’argomentazione (si prega di leggere prima l’articolo citato, o in alternativa di non farlo, credo che l’intervento stia in piedi da solo):

“sono in disaccordo sia sulla concezione di pornografia sia sulla differenza tra questo film e un film porno, ma non per forza in senso negativo.
la pornografia, senza stare troppo a citare persone che ne hanno scritto, non è tanto un’imposizione post-figurativa quanto una tendenza epistemologica: è morte di desiderio, non nel senso che elimina quel desiderio esibendo quanto c’è da esibire, quanto piuttosto che nasce laddove quel desiderio è di per sé assente. l’immagine pornografica nasce dall’impotenza, ma non è impotente, non è anti-rivoluzionaria: mi piace pensare a cinema rivoluzionario (in senso improprio e semplificato, ma funzionale al discorso che sto facendo qui) pensando al cinema di benning. e di qui la rivoluzione, il ‘muovere i cardini’ di cui parli, come uno strappo cinematografico vero e proprio (si esibisce ciò che non si può esibire, ciò che sta fuori, disintegrando ciò che sta dentro -estendendolo-). dunque la pornografia non è un gesto impotente, perché mostrando tutto quello che c’è da mostrare a posteriori della morte del desiderio simula quel desiderio, lo indica al di fuori di sé stessa, lo rende più profondo di quanto non potrebbe -ad esempio- renderlo un film semplicemente erotico.
la pornografia è un’esemplificazione di un’arte morente, e questo film ne è un esempio. non c’è differenza tra questo e la pornografia, se non nel fatto che la pornografia di fatto indica qualcosa, è totalizzante, è totalitaria, mentre questo prova ad esserlo ma si sparpaglia in troppe direzioni. per questo, in un certo senso, la pornografia è riflessiva mentre questo film soltanto estetico.”

il problema dell'”omni-fagia” del capitale è un problema di demarcazione linguistica, in vista dell’evidente fatto che una tale omni-fagia di fatto, all’interno del meccanismo di produzione cinematografica (e artistica in generale) è sempre esistito, e non soltanto in potenza (si potrebbe dire, il cinema di welles già presuppone la gemmazione del cinema contemporaneo, ma non sarebbe del tutto corretto: è piuttosto evidente che il cinema di welles sia già il cinema contemporaneo, e che la questione del contesto di emissione modifichi l’ambito fruitivo, non quello epistemologico/artistico).

cos’è l’omni-fagia del capitale e perché certo cinema è accostato ad un processo/caratteristica simile? si paragona il ‘capitalizzante’ al ‘totalizzante’ artistico, che è mortificazione di ciò che dall’artistico trascende: in poche parole, un film post-hollywoodiano sarebbe capitalizzante e capitalizzato a partire dal fatto che auto-consapevolmente si esaurisce nell’essere già cinema, a partire dal fatto che di per sé non ci sia niente che venga indicato, dato a vedere, dato ad intendere al di fuori del gesto cinematografico o di qualsiasi gesto in generale. la comunicatività ‘fascistizzata’ del cinematografico, si dice, esiste laddove il mezzo-cinema sovrasta l’immagine cinematografica, laddove il linguaggio esaurisca sé stesso, laddove (in pratica) i mezzi di produzione e sussistenza dell’economia/cinema e della struttura/cinema sovrastino la vera ed effettiva linguistica cinematografica (astante da qualsiasi dato esterno). di qui, il paragone con la pornografia: pornografia totalizzante, pornografia che esclude ciò che è fuori dal mezzo d’emissione, pornografia che esaurisce il desiderio.

ma la pornografia, come accennato nel commento che ho re-postato sopra, in che senso si ‘totalizza’? è davvero ‘fascistizzante’ la totalità della pornografia? o piuttosto la pornografia (capitalizzata -?-) proprio nel suo essere’totale’ indica qualcosa d’altro? qual è la differenza tra un film erotico e un film pornografico? sussiste? qual è, analogamente, la differenza tra un film post-hollywoodiano e un film di tarkovskij?

dire che in un certo senso la pornografia è già inclusa in qualsiasi film erotico, come dire che un mad max: fury road o un film di spielberg hanno un valore che è già incluso in un film di taskovskij, o di tarr, o di benning, va ben oltre il sancire un’arbitraria linea di demarcazione (linea che, tra le altre cose, si vorrebbe storica e culturale ma va ad essere l’opposto, negando ad ogni fase attraversata dalla sua ‘storica’ l’identità culturale che la contraddistingue: si va perdendo praticamente il potere meta-teorico della cultura, la spinta automatica di ogni corrente che piega l’interpretazione ad essere extra-diegetica, non esclusivamente diegetica; valutare il cubismo dall’interno del cubismo, arrivare negli anni ’60 e dire che l’arte non è più cubista e fa schifo è un atto di miopia critica anti-storico e anti-culturale: si dovrebbe piuttosto dire che, laddove certe spinte del cubismo si sono evolute in un certo modo -di qui l’extra-diegetico- il minimalismo -per esempio- ha proseguito lo stesso argomento in un altro modo. si dovrebbe piuttosto dire che in un certo senso il cubismo era già minimalismo, pur da un punto di vista esterno alla cultura cubista e minimalista -unico che, in questo modo, può propriamente parlare di cultura).

in questo articolo (ci trovate un altro mio commento) viene presentato un esempio sano e piuttosto concreto di ciò che è una critica socializzata del cinema. immediatamente si rende chiaro l’andamento speculativo, teorico e categorizzante del materiale di partenza (un saggio). altrettanto immediatamente emerge il problema di una demarcazione squisitamente culturale, astante da qualsiasi tipo di sincretismo critico, che è costretta a scendere a patti con i problemi che essa stessa evidenzia. e ossia: perché, laddove i mezzi e la ‘società’ del cinema si sono evoluti in modo organico, non è altrettanto organica la piega presa dalla produzione comunicativa cinematografica interna ai due sistemi?

il parallelismo con l’antropologia, dato che stiamo parlando di società, è evidente fin da subito: laddove una critica socio-antropologica individua la nascita della società nell’affermazione della proprietà privata, e laddove la società virtualizzante del capitale contemporaneo è uno sviluppo di quella stessa affermazione, perché individuare un deterioramento, un cambiamento di rotta, una spinta da contrastare o contro la quale opporsi? non si fraintenda: è chiaro che qualcosa sia cambiato. è chiaro che la virtualità del capitale non esisteva al tempo delle tribù, chiaro nell’ambito pratico cosa questo significhi. ma la proprietà includeva la virtualità, per definizione. un cambiamento lessicale, in questo senso, c’è stato ma è stato semantico, non grammaticale. per questo dire che ‘le cose sono andate così ma potevano andare diversamente’ non ha senso: la forma primitiva di una società era già ciò che la società sarebbe divenuta, non nell’ottica di uno sviluppo unitario (senza stare a tirare in ballo lévi-strauss) quanto piuttosto nell’ottica linguistica di ciò che è proprietà. si ammette la possibilità di un cambiamento paradigmatico, ma quel cambiamento è già incluso fin dal principio. la sua esistenza è una questione di critica antropologica anti-storica. analogamente, il cambiamento del cinema c’è stato, ma c’è stato nell’ottica di una critica cinematografica presunta storica ed effettivamente anti-storica.

tra un film di tarkovskij e un film di tarantino ci sono differenze innegabili: linguistiche, teoriche, concettuali, ma la grammatica è sempre la stessa. non esiste un film ‘capitalizzato’, perché le regole della capitalizzazione sono già presenti anche in un film assolutamente non capitalizzato, sono già presenti anche in benning. non si può parlare di grammatica e società al tempo stesso, perché questo arriva a limitarsi ad una speculazione sull’economia del cinema, e l’atto cinematografico in sé non possiede un’economia. sancire una differenza grammaticale tra benning e tarantino è più o meno arrivare a parlare dei mezzi di produzione, delle etichette, del team produttivo di un film piuttosto che di un altro. il fatto è che questi processi non hanno a che vedere con in linguaggio cinematografico, esattamente come il movimento delle corde vocali non ha a che vedere con il linguaggio verbale, esattamente come (quindi) il movimento di corde vocali caucasiche o di corde vocali negroidi non opera affatto un distinguo tra il linguaggio della società-caucasica o della società-negroide: implica ovviamente delle distinzioni a livello di sonorità, di semantica, di sintattica, ma non può implicare delle distinzioni a livello grammaticale. proprio come un film di tarkovskij non può distinguersi da un film di miller a livello comunicativo grammaticale: comunicano, più che la stessa cosa, allo stesso modo.

per tornare al primo tra gli esempi presentati, si potrebbe dire sia che la pornografia sia la morte di un ‘messaggio erotico’ sia che sia la sua estensione, sta di fatto che quel che comunica è comunicato nello stesso modo in cui è comunicato ciò che comunica un episodio di erotismo. quando si operano distinzioni si deve star bene attenti all’ambito semantico: estendere una distinzione trasversalmente a tutti gli ambiti non può che portare ad errori evidenti, come quello (di tricomi) di trattare una differenza culturale come una differenza teorica, artistica o (ancora peggio) linguistica o epistemologica.

l’ordine simbolico del cinema ‘non ibrido’ pre-cadaverizzazione capitalista, per concludere, è sempre stato identico a quello ‘ibrido’ capitalista. non soltanto in senso di sviluppo organico, di per sé dato evidente, quanto piuttosto nel senso di una vera e propria identità linguistica. la ‘deriva postmoderna’, si tenga sempre a mente, altro non è che il cinema moderno potenziato dalla sua stessa consapevolezza (sempre avuta, sempre esplicitata, adesso addirittura resa strutturale): qualora il cinema abbia sempre comunicato qualcosa, si tenga presente il fatto che possa star continuando a farlo; qualora invece sembri che non lo stia più facendo, si tenga presente il fatto che possa non averlo mai fatto nonostante sembrasse il contrario.

la ‘morte’ è sempre esistita, è endemica del mezzo cinematografico e linguistico (ne accenno qua) non di un certo momento sociale, culturale o semplicemente economico.


2 risposte a "Cinema e Capitale"

  1. “non si fraintenda: è chiaro che qualcosa sia cambiato. è chiaro che la virtualità del capitale non esisteva al tempo delle tribù, chiaro nell’ambito pratico cosa questo significhi. ma la proprietà includeva la virtualità, per definizione. un cambiamento lessicale, in questo senso, c’è stato ma è stato semantico, non grammaticale. per questo dire che ‘le cose sono andate così ma potevano andare diversamente’ non ha senso: la forma primitiva di una società era già ciò che la società sarebbe divenuta, non nell’ottica di uno sviluppo unitario (senza stare a tirare in ballo lévi-strauss) quanto piuttosto nell’ottica linguistica di ciò che è proprietà. si ammette la possibilità di un cambiamento paradigmatico, ma quel cambiamento è già incluso fin dal principio. la sua esistenza è una questione di critica antropologica anti-storica. analogamente, il cambiamento del cinema c’è stato, ma c’è stato nell’ottica di una critica cinematografica presunta storica ed effettivamente anti-storica.”

    Non riesco a capire bene questa parte. All’inizio sembra che tu stia abbracciando una posizione determinista, ma poi affermi che non intendi uno “sviluppo unitario” delle società, ma un’ottica linguistica di ciò che è proprietà.
    Vuoi dire che nel momento in cui un critico traccia delle linee di demarcazione tra, prendiamo, un romanzo moderno e uno modernista, si sta ponendo come anti-storico?

    Neanche a me piacciono i riduzionismi legati alla funzione economica del cinema. Però prendiamo il cinema dell’Italia fascista. Anche ammettendo che la grammatica di quel cinema sia già in quello che lo ha preceduto, perché questo cinema di propaganda non dovrebbe essere comunque esecrabile?
    Non riesco a capire il passo che ti porta a escludere la parte sociologica e antropologica dal discorso critico. Voglio dire: è innegabile che certo cinema possa indottrinare più di altro, e che il contesto sociale limiti certe potenzialità di libera espressione dell’artista. Perché non porsi in modo critico rispetto a questo fatto? Vuoi dire che la critica deve essere amorale?

    Dimmi se ho capito male io quello che intendevi. Vedo che comunque è un articolo vecchio quindi potresti anche aver cambiato opinione rispetto a quanto scritto.

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  2. Una premessa doverosa che si collega alla conclusione del tuo commento: ho scritto questo articolo più di 4 anni fa, in tempi in cui il mio interesse per i temi trattati era agli albori e mi dilettavo a scrivere articoli intricati e difficilmente comprensibili. Soltanto in seguito mi sono avvicinato al mondo accademico, imparando a buttar giù ragionamenti leggibili, ma anche argomentati punto per punto e non “condensati” come questi.

    Avendo ricevuto il tuo commento mi sono messo a rileggere quanto scritto: un pezzo che non ricordavo affatto, e che anzi ho fatto fatica a capire in più punti. Quindi ecco, cerco di rispondere alla tua domanda, ma tenendo presente che dell’articolo salverei soltanto qualche rimarca concettuale stravolgendo, o distruggendo, tutto il resto. Sono più ricordi di un percorso evolutivo che si è dilungato negli anni che riflessioni ancora valide, soprattutto dal punto di vista espositivo!

    Più che risponderti argomentando come avrei fatto allora quindi cerco di mettermi dalla tua parte e di leggere quanto scritto provando a interpretare il me del passato 🙂

    Anzitutto, al tempo semplificavo il discorso ottenendo delle conclusioni se vogliamo “radicali”. Per esempio, dall’articolo emerge una certa volontà di annullare il contesto in cui un film prende vita o viene analizzato, cosa che adesso prenderei molto più coi dovuti accorgimenti. Per esempio questo pezzo qua, che mi sembra legato a quello che commenti tu, pecca abbastanza di semplicismo a leggerlo oggi:

    “non si può parlare di grammatica e società al tempo stesso, perché questo arriva a limitarsi ad una speculazione sull’economia del cinema, e l’atto cinematografico in sé non possiede un’economia. sancire una differenza grammaticale tra benning e tarantino è più o meno arrivare a parlare dei mezzi di produzione, delle etichette, del team produttivo di un film piuttosto che di un altro. il fatto è che questi processi non hanno a che vedere con in linguaggio cinematografico, esattamente come il movimento delle corde vocali non ha a che vedere con il linguaggio verbale, esattamente come (quindi) il movimento di corde vocali caucasiche o di corde vocali negroidi non opera affatto un distinguo tra il linguaggio della società-caucasica o della società-negroide: implica ovviamente delle distinzioni a livello di sonorità, di semantica, di sintattica, ma non può implicare delle distinzioni a livello grammaticale. proprio come un film di tarkovskij non può distinguersi da un film di miller a livello comunicativo grammaticale: comunicano, più che la stessa cosa, allo stesso modo.”

    Presuppongo qua (senza spiegarlo, ahimè) che la “grammatica” sia un meta-linguaggio à la Wittgenstein, una specie di “linguaggio a priori del linguaggio” che quindi accomuni tutte le lingue (o tutti i linguaggi, a seconda di cosa si stia parlando). Questo, dal punto di vista concettuale, porta a semplificazioni fuorvianti: se è vero che da un certo punto di vista Benning e Tarantino condividano una siffatta e astratta “grammatica filmica”, altrettanto vero è che tale grammatica, per essere condivisa, dev’essere ridotta a elementi atomici di linguaggio immagine/suono. Parimenti, due lingue diverse possono essere poste sullo stesso piano se e solo se si riduce l’idea di linguaggio a un legame astratto (di nuovo, da Wittgenstein in poi) tra realtà e codice. Concependoli così, si privano però i linguaggi delle loro sfumature significazionali e grammaticali. Vero è che ogni cosa si può ridurre a un “grado zero” meta-linguistico, vero anche è però che a livello grammaticale, e non meta-grammaticale, le lingue SONO influenzate dalle corde vocali di chi le usa, anche a livello grammaticale, e analogamente i film SONO in parte il prodotto del contesto (sociale, politico, economico) in cui nascono.

    Questo quindi in generale: ogni frase di questo articolo potrebbe essere spacchettata in mille precisazioni cautelative, che qua sono assenti. Il tono “radicale” che assume lo scritto mi sembra il suo difetto più grande.

    Provo ora a rispondere a quel che dici tu nello specifico.

    1) “Non riesco a capire bene questa parte. All’inizio sembra che tu stia abbracciando una posizione determinista, ma poi affermi che non intendi uno “sviluppo unitario” delle società, ma un’ottica linguistica di ciò che è proprietà.”

    Nell’estratto che citi, mi sembra a rileggerlo che il punto non sia antropologico o sociale, piuttosto linguistico. Non è quindi una concezione determinista in senso stretto: quello che intendevo, credo, è che il concetto stesso di “proprietà” implica, per fare un esempio, la virtualità del capitale della speculazione borsistica attuale indipendentemente dal contesto sociale o economico in cui si parla di proprietà. Per dire: gli antropologi degli albori che, osservando tribù lontane dalle società europee, idealizzavano in qualche modo una mai esistita “età dell’oro” e catalogavano gruppi sociali in base allo stadio evolutivo del loro concetto di proprietà, di certo non avevano in mente che cosa potesse essere il capitale digitale o la speculazione borsistica. Eppure il modo stesso in cui, le prime volte, veniva concettualizzato e articolato il termine “proprietà” (anche adesso semplifico, ma non posso rispondere a un commento con troppe parole!) già conteneva, in nuce, ciò che la proprietà sarebbe diventata in seguito. Ciò è più evidente in Marx, che per dire già parla di virtuale, ma non di digitale. Diciamo che la proprietà, come termine, è un comune denominatore di ogni scritto economista o antropologico, e possiede cioè caratteristiche e significati che si sono mantenuti invariati dai suoi primi usi a oggi.

    Questo al tempo della stesura dell’articolo mi serviva a dire “allora in effetti la proprietà e il capitale non si sono mai evoluti: sono cambiati i modi, ma non la proprietà. Levi-Strauss, o Marx, o chi prima di loro, parlavano di proprietà e virtualità analogamente a come se ne parla adesso, e la speculazione borsistica digitale è un ‘accidente’ della proprietà, già contenuto in nuce nel suo significato originario”. Di nuovo, un ragionamento che semplifica fino all’errore. Ma ha un barlume di senso: del resto è vero che il linguaggio si adatta al reale, e adatta quindi significanti a un mondo che si evolve a prescindere da lui. In questo senso “proprietà” è sempre proprietà, per quanto i suoi modi si evolvano nel tempo. Questo intendevo con “l’ottica linguistica”, e con questo prendevo le distanze da ciò che definisci “una posizione determinista”. Non intendevo dire che la speculazione borsistica digitale era già contenuta, in nuce, nella proprietà delle tribù degli albori: questo vorrebbe dire che ogni società si evolve seguendo un percorso unitario e in un certo senso pre-determinato, come giustamente scrivi. Intendevo piuttosto dire che, a prescindere dalle evoluzioni mutevoli e imprevedibili delle varie società, il concetto di “proprietà” designa di per sé (linguisticamente, e meta-linguisticamente come intendevo allora) qualcosa che già contiene in nuce il mercato borsistico digitale. In realtà al tempo non consideravo il fatto che il linguaggio non funziona a prescindere dalla realtà, ma ne è contaminato: oggi direi piuttosto che il linguaggio è abbastanza flessibile da adattarsi a eventi imprevisti come la nascita del mercato borsistico, che quindi vengono dialetticamente e dinamicamente ridefiniti e inglobati in strutture di senso preesistenti (come il concetto di proprietà).

    2) “Vuoi dire che nel momento in cui un critico traccia delle linee di demarcazione tra, prendiamo, un romanzo moderno e uno modernista, si sta ponendo come anti-storico?”

    Probabilmente sì, volevo dirlo: di nuovo, è talmente radicale come posizione che sembra una provocazione. Provo a fare la parafrasi e ad attenuare i toni: se interpretiamo l’alternarsi e l’evolversi di modalità espressive in base al periodo storico (in senso lato e capillare) di riferimento, stiamo in realtà sottovalutando il fatto che ogni linguaggio abbia costanti strutturali indipendenti dal contesto sociale, economico, storico o quel che vogliamo. Oggi ti direi: è sbagliato ridurre l’analisi di un qualsiasi testo all’individuazione del modo in cui si rapporta al contesto di riferimento. Dall’altra parte, definire come paradossalmente “anti-storico” un critico che interpreta in modo diverso due testi appartenenti a periodi diversi mi sembra un’esagerazione.

    3) “Neanche a me piacciono i riduzionismi legati alla funzione economica del cinema.”

    Questo credo che, tolte le esagerazioni e il caos, sia il senso ultimo dell’articolo.

    4) “Però prendiamo il cinema dell’Italia fascista. Anche ammettendo che la grammatica di quel cinema sia già in quello che lo ha preceduto, perché questo cinema di propaganda non dovrebbe essere comunque esecrabile?”

    Su questo provo a risponderti adesso: ammettiamo che la grammatica sia la stessa, ammissione di per sé da prendere con le molle, come ho scritto anche sopra, ma facciamolo. Questo cinema di propaganda non dovrebbe essere comunque esecrabile perché, indipendentemente dalla realtà che riflette, è il modo in cui la riflette a essere importante dal punto di vista analitico.

    Questa cosa forse non è chiara dall’articolo, tanto che mi sorge il dubbio di averla dedotta per i fatti miei adesso che l’ho riletto. Mi sembra però che una conseguenza di quanto detto sia: criticare Blade Runner 2049 perché contiene elementi di brandizzazione tipici dei blockbuster del suo tempo (l’accenno a un seguito o all’inizio di una serie, una certa estetica, certi attori e via così) è miope. Ovvio cioè che il film sia figlio del suo tempo, come il predecessore lo era alla sua data d’uscita: “sbagliato”, o limitante, dare però giudizi di valore in base al fatto che il film sia inserito in certe dinamiche di mercato, o sociali o politiche.

    “Non riesco a capire il passo che ti porta a escludere la parte sociologica e antropologica dal discorso critico. Voglio dire: è innegabile che certo cinema possa indottrinare più di altro, e che il contesto sociale limiti certe potenzialità di libera espressione dell’artista. Perché non porsi in modo critico rispetto a questo fatto? Vuoi dire che la critica deve essere amorale?” – In un certo senso sì, volevo (ma lo voglio tutt’ora) dire che la critica deve essere amorale.

    Un film come BR2049 risponde sì a certe esigenze del mercato, e in questo si distacca dal predecessore, ma non per questo è “peggio” (semplifico) di BR. Si muovono in due mondi diversi, e li riflettono allo stesso modo: ma criticare il mondo riflesso, e non il modo in cui viene riflesso, può portare a miopie analitiche. Ovvio che ogni testo rifletta il mondo che lo circonda: va semmai criticato il modo in cui lo riflette, non il mondo che viene riflesso. Il rischio è quello della critica moralizzante (“tutti i film di questo tempo sono sbagliati”) o politicizzante (“tutti i film che, volontariamente o meno, veicolano questi messaggi sono sbagliati”). E sono due tipi di critica da cui mi discostavo quattro anni fa, ma da cui mi discosto ancora oggi senza mezzi termini.

    Ho amato l’ultimo Halloween uscito, eppure ho riconosciuto che fosse pesantemente reazionario, ottuso, e quasi fascista. Mi sono sforzato di vederlo ‘malgrado’ quei suoi limiti. Analogamente, quando si analizza un film di regime (qualsiasi regime) ci si dovrebbe a mio avviso sforzare di limitare i danni (analitici) dei suoi limiti autoimposti o imposti dall’alto. Esistono ottimi film di regime o propaganda, tanto di Kurosawa quanto di Eisenstein, che meritano di essere letti e apprezzati al di là del loro rapporto col contesto del regime. Per quanto, ovviamente, quel rapporto abbia influenzato e a oggi influenzi ogni loro componente.

    Spero di essere stato chiaro, e scusa il pappone infinito! Grazie per la domanda, mi hai dato modo di tornare su uno scritto passato, cosa che malgrado il sottile senso di vergogna che mi provoca faccio sempre con grande piacere! A presto, se hai altre perplessità dimmi pure 🙂

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