Almanacco d’Autunno di Béla Tarr

ambientato interamente in un decadente ed anacronistico interno abitativo, il film segue le “vicende” (di sviluppi se ne vedono davvero pochi) di una madre attempata, un figlio irruento, un ospite, un’infermiera e il suo compagno. i protagonisti sono infinitamente soli e la loro ricerca di un contatto con gli altri si chiude oltre il rancore, la rabbia, la meschinità e l’egoismo che rendono la convivenza un susseguirsi incessante di sprezzanti offese, tradimenti, macchinazioni e scontri (anche fisici).

prima di divenire un cantore dell’apocalisse, tarr descrive un’incessante danza col diavolo (distante del tango satanico che porta all’annichilazione, più simile al dipinto marcescente di un decadimento continuo, avvilito, che non prevede nella sua incessante riproposizione alcun finale – si potrebbe dire, in riferimento allo sviluppo della poetica del regista, che si sta parlando di un decadimento che è ancora troppo legato al sociale per farsi esistenzialmente e metafisicamente universale, per farsi crollo effettivo, per esprimersi al di là del logoramento che compone il suo corpo – per dare, in un’estetica del sublime, la sua anima) che attinge da una relazionalità simbolica ma familiare, esasperata ma storicizzata. l’osservazione del reale cede il passo ad un racconto inevitabilmente esistenziale, ancora però astante dal respiro gigantesco delle opere successive.

rilevante, per una volta, l’uso del dialogo: la narrazione si basa interamente sulle parole, che divengono immediatamente uno squarcio sulla psiche dei protagonisti (in qualche modo, ironicamente, il linguaggio fornisce l’apertura sulla ferinità dei più bassi istinti che muovono le bestie di tarr). per lunghe e dilatate didascalie emotive, il racconto si adagia su un’osservazione rallentata, che si compiace di sé stessa, che si rende densa di trovate e priva di finalità (il piano sequenza, l’audacia di alcune inquadrature -tra tutte quella dal basso, oltre il livello del pavimento) tanto da far apparire il gesto registico come corporeo, come ente a sé stante e non dipendente dal racconto, come una tangibilità che osserva e si osserva (tangibilità che andrà inspessendosi sempre di più nella poetica tarriana, fino al saggio puramente stilistico -cinematografico- de il cavallo di torino).

altre note di spicco sono i colori e la fotografia. il cromatismo del film è allucinato, espressionista, surreale. il colore si rende immediatamente tono, il tono ambiente, l’immagine si desatura e si fa quasi luce. nell’evoluzione verso un lirico bianco e nero sempre più maestoso, questo episodio a colori si conferma come uno dei più esteticamente (cromaticamente, appunto) suggestivi ed efficaci.

[★★☆☆☆]


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