Recensione: The Missing: J. J. Macfield and the Island of Memories – podcast

Ciao a tutti e ciao a tutte,
Questo video come avrete già visto dal titolo è dedicato a The Missing, J J macfield and the island of memories, puzzle game indipendente sviluppato da White Owls, studio con a capo il director di titoli come Deadly Premonition 1 e 2 e D4. Ho scelto di portare questa specie di recensione su questo titolo e non su altri per due motivi fondamentali. Il primo è che, come i più affezionati sapranno ammesso che ce ne siano, ho pubblicato da poco su letterboxd una lista dedicata a tutti i film, videogiochi o serie che presentano una realtà finzionale in cui reale e immaginario si fondono – tutti quei film o videogiochi, per capirci, in cui il mondo del racconto è una realtà psichica o presunta tale. Nella lista, tra l’altro se volete contribuire suggerendo qualcosa che mi sono perso lascio il link in descrizione, ho raccolto cliché e archetipi precisi, ma insomma trovate tutto su letterboxd. Mi è quindi sembrato opportuno parlare di The Missing perché, come vedremo anche tra poco, entra a pieno titolo in questa categoria di ‘esperienze mediali’, per dir così, proprio come Rule of Rose che ho recensito in precedenza sempre su questo canale – e volendo come Men di Garland, anche quello apparso di recente da queste parti, o ancora Omori. Mi sembrava quindi doveroso in qualche modo andare avanti con questo trend di titoli in bilico tra realtà e allucinazione. Il secondo motivo è che The missing è passato quasi del tutto inosservato, a causa anche di evidenti limiti di design, e proprio per questo mi sembrava opportuno dargli un po’ di spazio anziché finire a parlare sempre di videogiochi stranoti ai più.

Ma basta con le introduzioni e andiamo dritti al sodo: The Missing è un puzzle game con elementi horror che racconta di due ragazze, J J Macfield e l’amica Emily, che vanno a fare una gita a Memoria Island, un’isola in cui si dice che si possano rivivere i ricordi. Per motivi non meglio precisati, Emily scompare e J J si trova a cercarla in lungo e in largo. L’introduzione grida due titoli a squarciagola: da una parte Silent Hill e dall’altra Twin Peaks. La premessa del gioco è proprio come quella del primo gioco Konami: ci si trova in uno spazio limite tra più realtà, tra l’altro abitato in precedenza da tribù che ne hanno venerato le caratteristiche esoteriche, e in questo spazio si perde una persona cara senza un motivo apparente. Il rimando a Twin Peaks è più implicito, ma diventa evidente andando avanti: l’isola è infatti uno spazio americano archetipico, tra segherie, diner, bowling e binari coi treni, e in questo spazio periferico si scorgono personaggi bislacchi, scene del tutto irreali e grottesche, ricorrente è la figura di un tizio con la testa di alce che parla alla rovescia come gli abitanti della loggia nera. Tra l’altro nel fissare questi riferimenti il gioco rende chiara anche una certa continuità con Deadly Premonition e più in generale con i titoli partoriti dalla mente di Swery – con cui condivide fin da subito anche il tono ambivalente, ora drammatico ora demenziale, e la forte dissonanza tra narrazione e meccaniche evidente nelle fasi di gameplay con le ciambelline da raccogliere in giro. Recupera anche alcune fissazioni iconografiche, tra cui quella della torre dell’orologio e dei personaggi con molteplici identità compresenti.

Andando avanti nella sua ricerca, come da tradizione si arriva dappertutto meno che a ritrovare l’amica Emily – anzi, come cercando Cheryl ci si trova anzitutto a dubitare della sua stessa esistenza, del suo statuto ontologico come di quello dell’isola e della nostra stessa protagonista. Si procede in un puzzle game abbastanza classico, forse anche un po’ datato nelle meccaniche e nel ritmo, che si basa tutto su enigmi ambientali che ruotano attorno alla possibilità di J J di prendere fuoco, venir sfracellata e mutilata senza morire. Capacità che è meglio precisarlo scopre di aver acquisito una volta sull’isola.

Insisto ancora un attimo sull’introduzione, che assieme alla chiusura è senza dubbio la parte riuscita meglio di tutto il gioco, per rilevare come a livello ‘registico’ sia parecchio affascinante: in particolare la scena che vede le due amiche interagire in modo romantico la vediamo a una distanza tale, in campo lungo, che rende praticamente impossibile capire che cosa stia accadendo effettivamente. I comandi che possiamo dare alla protagonista rendono altrettanto difficile capire che cosa succede. La scena in altre parole rende esperibile con una certa originalità il senso di confusione, distacco e disagio che probabilmente sta provando anche la nostra avatar durante la sequenza. Senso di distacco che poi procede per tutto il gioco, essendo l’inquadratura fissa a una certa distanza dalla protagonista per tutto il tempo. In questo senso vale anche la pena riflettere sul fatto che l’inquadratura (e se vogliamo il genere stesso del gioco) rendano difficile entrare in contatto empatico con J J e con ciò che vive. Questo senso di distacco non è casuale, e anzi si svela essere uno dei fulcri narrativi del gioco.

Dopo quindi un inizio molto cinematografico e molto efficace, J J scopre di potersi fare a pezzi senza morire (ma comunque con grande dolore) e di lì il gioco procede con una serie di livelli puzzle, molto più originali a dirsi che a farsi, in cui continuamente si deve sacrificare il corpo della protagonista per procedere, tra l’altro molto spesso quindi sentendola gridare di dolore, vedendola strisciare, inciampare perché non ha più una gamba, camminare col collo torto eccetera.

The Missing è abbastanza breve: io personalmente l’ho completato in meno di tre ore. Non ho raccolto tutte le ciambelle in giro per i livelli per principio, ma credo che anche volendolo approcciare in modo completista non si vada oltre le cinque. La breve durata in questo senso è d’aiuto, essendo che il gioco funziona più che altro in apertura e in chiusura, mentre nel mezzo si scontra con quello che è un limite di tutte le opere di Swery, o per lo meno di quelle che ho avuto modo di giocare finora, ovvero di essere un narratore bizzarro ma efficace, e al tempo stesso un game designer altalenante. Come in Deadly Premonition le sequenze d’azione erano al limite dell’imbarazzante, qua ci si trova davanti a un puzzle game statico, dal passo lentissimo, condito di quadri trial and error, che per giunta quando si mette a giocare sceglie consapevolmente di limitare al minimo gli elementi narrativi: in pratica, un intervallo ludico di quasi due ore tra due sequenze più narrative. Tutto quello che si fa di narrativo è inseguire la parvenza di Emily tra un quadro e l’altro e sbloccare delle conversazioni avute per messaggio tra J J e altri personaggi nel passato. Anche per questo, come avrete già intuito, la valutazione che do a The Missing è abbastanza bassa rispetto alle premesse: l’esperienza non funziona, è estremamente meccanica e frustrante, e per quanto provi a giustificare queste sue scelte da un punto di vista narrativo ed emotivo non ci riesce fino in fondo. La grande risorsa del gioco è in questo senso la sua brevità: non durando troppo, di fatto può essere affrontato anche dai più invisi al genere puzzle.

Arriviamo invece agli elementi che nel gioco sono più interessanti. Da qua faccio spoiler, quindi in caso allontanatevi finché siete in tempo.
The Missing è uno dei pochi titoli in circolazione che raccontino un personaggio queer, e nello specifico uno transessuale. In questo è affascinante il fatto che tutta l’esperienza di gioco sia una specie di allucinazione in stato di pre-morte, come tante se ne vedono in fin troppi horror psicologici – lo so perché mi sono messo a listarli su letterboxd come vi dicevo prima. Il gioco appartiene quindi a un sottofilone di queste narrazioni, che vede non solo realtà e allucinazione mescolate, e quindi il personaggio attraversare un mondo interiore in cui conoscere e trovare se stesso, ma che interseca questo tropo con la messa in dubbio dell’identità di genere della protagonista. Qualcosa di simile si trova per esempio nel Gozu di Takashi Miike o nello Strange Circus di Sion Sono, ma anche volendo accennato in Synecdoche New York di Charlie Kaufmann. In tutti questi titoli la mente dei protagonisti si estende a mondo dell’esperienza, e solo tramite questa estensione il soggetto arriva riesce a mettere in dubbio se stesso tanto da riconoscersi altro. È qualcosa che in nuce si trova in tutte le narrazioni di questo tipo, ma che abbinata alla riflessione queer diventa ancora più dirompente ed efficace: capire questi mondi per i soggetti che ne fanno esperienza significa correre il rischio di capire se stessi, quindi accettandosi oppure no. Generalmente in questi mondi ci si trova alle prese con personaggi doppi, tripli, e con un conflitto tra immagine di sé, interiorità ed esteriorità abbastanza marcato. Come la realtà dell’esperienza è in bilico tra più mondi, così i personaggi che la abitano, siamo quindi dalle parti del doppio, della proiezione, del riflesso che prende vita nel mondo riflesso appunto. Questi mondi si prestano quindi particolarmente bene a esplorare smarrimento esistenziale, dissociamenti di varia natura, e non ultime molte sfumature della disforia di genere. Stupisce allora come The Missing, a suo modo, provi a interpretare la disforia di genere in chiave quasi universalistica, un po’ come faceva Synecdoche New York arrivando a suggerire che nel profondo di ogni frammentazione del sé c’è anche la possibilità, se vogliamo pulsionale, di trovarsi in un altro genere. L’operazione non riesce appieno, ma la sequenza della torre dell’orologio vuole chiaramente estendere la riflessione del gioco oltre i confini della vicenda personale della protagonista – ci si chiede infatti il senso ultimo dell’esistenza, dello stare al mondo e così via. Quando lo zenith viene raggiunto il gioco si abbandona a una serie di immagini naturalilstiche proprio per rafforzare questo piglilo universale direi. Mi sembra quindi affascinante riflettere su The Missing in relazione al filone in cui è iscritto e in cui cerco di iscriverlo: in quanto mondo mentale, fatto di sogni, allucinazioni e ricordi, quello di The Missing è campo d’esperienza d’elezione per le narrazioni queer. Proprio perché qua il corpo, l’immagine e il soggetto sono per definizione entità fluide, ricollocabili e ricollocate, doppie, o in via di ridefinizione. Da questo punto di vista è del tutto significativo che queste narrazioni si accostino alle tematiche queer così efficacemente, tanto in Gozu quanto qua. In entrambi i casi, mettere in dubbio la realtà diventa una condizione necessaria per discutere dell’io, del corpo, e di ciò che questi si portano dentro.

Affascinante a tal proposito una meccanica in particolare in The Missing: quando J J si rompe l’osso del collo, il mondo di gioco si capovolge e lei cade nei soffitti delle stanze che esplora, potendo così esplorare da una prospettiva diversa. Questo in qualche modo sublima il processo di convergenza che in questi mondi c’è tra mondo e corpo: il corpo allucinato che si rompe determina uno stravolgimento nel mondo dell’azione, che si capovolge alla rottura del collo del soggetto. In questo The Missing reinterpreta il filone in cui cerco di iscriverlo con una certa efficacia.
Lo smembramento, poi, l’auto mutilazione e il senso di distacco, una volta capita la chiave di lettura del gioco diventano espedienti interazionali metaforici, atti a raccontare la condizione della protagonista e il suo modo di vivere il suo stesso corpo. Ecco che il nemico che affronta e che la insegue altro non si svela essere che la sua incapacità di accettarsi, condita poi di tendenze suicide.

Verso il climax finale c’è una sequenza che ribalta le classiche bossfight, in cui si gioca nei panni del mostro gigante che troneggia nello schermo e non dell’eroina che cerca di ucciderlo dal basso a colpi di fucile. Qui, affondando nella disperazione, J J prende le parti della bestia e si trova a uccidere l’amica, vivendo quindi in chiave allucinatoria il senso di colpa per gli effetti che il suo tentato suicidio avrà sulla psiche della compagna. Anche in questo, la riflessione che il titolo porta avanti sui cliché videoludici associati alla figura del mostro diventa affascinante – anche vista la demonizzazione che generalmente le narrazioni videoludiche associano d’ufficio alle figure transessuali.

A The Missing, per sintetizzare, non mancano originalità, inventiva, e una certa dose di audacia nel rielaborare immaginari preesistenti, trattare tematiche delicate, e farlo con un piglio provocatorio e kitsch del tutto peculiare. Nel farlo, come gli altri videogiochi capitanati da Swery, a volte tira un po’ troppa la corda e finisce per essere talmente grezzo da risultare involontariamente goffo. Il modo in cui però mescola la tematica queer ai tropi e cliché delle narrazioni ‘interiori’ è tanto affascinante da risultare quasi irresistibile, per cui mi sento comunque di consigliarlo, pur valutandolo con una sola stella su cinque (e quindi sei su dieci se amate i voti in decimi).
Alla prossima!

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