The Neon Demon di Nicolas Winding Refn

(articolo in via di revisione)

il film si presenta in una guaina estetica estremamente modaiola, raffinata, dello stesso glamour dell’ambiente che descrive (già nei titoli di testa, con tanto di nome del regista stilizzato in una sigla elegante e scintillante, simile al marchio di un profumo): questo si traduce durante tutta la sua durata in cromatismi calibrati, vagamente espressionisti, sostenuti da sguardi cangianti (frenetici nelle notti al neon, addolciti durante le tenui giornate in grafica tumblr) e da disposizioni estremamente composte e calibrate, dall’austerità martellante delle visioni onirico/metafisiche alla banalizzata raffinatezza degli ambienti di città. l’impalcatura stilistica di refn, ancora una volta, è ben più di una fascinazione pop che accompagna un impianto narrativo: il film si basa interamente sul suo apparato estetico/sonoro, alienando in esso qualsiasi intento comunicativo.

si parla di una giovanissima modella che arriva in città. ha del potenziale e si impone immediatamente sul campo, attirando su di sé le ire delle colleghe. man mano che si va avanti, il racconto si rende una metafora fiabesca dai risvolti decisamente sinistri: la protagonista, modello puro di un’angelica bellezza e incarnante la stessa bellezza in sé, si rende prima ‘al neon’ (la metamorfosi verso metà film) e infine diviene fulcro delle ossessioni (di vario genere che siano) di chi la circonda. l’esito ultimo di un rapporto psicotico con l’ideale di bellezza ha inevitabilmente dei risvolti macabri/grotteschi.

refn mette su un complesso né propriamente narrativo né propriamente descrittivo, tratteggiando un ambiente in modo cinico e nichilista tra infinite dilatazioni (spesso semplici divagazioni stilistiche). oggetto della riflessione estetico/esistenziale è chiaramente il mondo della moda, che si trasforma presto in un simulacro del rapporto tra forme (parlare di ‘forma’ e ‘contenuto’ assume una connotazione ambigua: quando si individua qualcosa di altro dalla forma – qualcosa di ‘interiore’ – lo si fa soltanto per appropriarsi della stessa forma. sembra che non soltanto la bellezza sia l’unica cosa ad esistere, ma che anche l’interiorità si costruisca – o ci provi – di quella stessa esteriorità). del resto il film stesso, nella sua eccessiva e ridondante estetica modaiola, non fa che porsi allo spettatore come gli specchi di cui racconta (e che spessissimo mostra) si pongono alle protagoniste che vi si riflettono: dopotutto l’insistenza cromatica e geometrica, l’estrema calibratura del ritmo del montaggio o gli abbondanti sprechi di tempo sembrano proprio compiacersi di sé stessi come le modelle che descrivono (verrebbe da dire ‘esibiscono’). sembra che tutto il film sia una specie di rivista di moda: un’icona/specchio, testimone di una bellezza ambigua e costruita, di una crudeltà pubblicitaria.

il racconto va a parare in aberrazioni quali necrofilia e cannibalismo in una repentina spirale che rende la parte finale del film la più tesa, interessante e derivativa (echi di greenaway e quant’altri). la dinamica metaforica che inserisce il cannibalismo lo rende di un’efficacia maniacale, divertita e spregevole: una degna conclusione di un meccanismo malato e deforme come quello (così esteticamente) descritto.

confermando la sua posizione al limite tra esercizio stilistico puro e semplice, narrativa elementare e appena simbolica e ritmica dilatata, refn aggiunge alla sua carriera un tassello ambiguo, fondamentalmente analogo ai precedenti drive e solo dio perdona: non si capisce bene quanto ci sia da salvare, al di là di una comunicazione così ben confezionata ma fondamentalmente così spaventosamente vacua.

[★☆☆☆☆]


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