Il Disprezzo di Jean-Luc Godard

tratto dall’omonimo romanzo di moravia (un ennesimo pretesto) il film si presenta più come una riflessione critica e simbolica sulla società occidentale che passa inevitabilmente per una riflessione critica e simbolica sul cinema che come un racconto psicoanalitico di sorta. il fatto è che, ancora una volta, la psicoanalisi di godard è una psicoanalisi dell’immagine, i suoi personaggi sono prima di tutto attori e le sue scene sono prima di tutto (meramente -?-) delle ‘riprese’.

si parla di uno sceneggiatore che scrive per lang un riadattamento dell’odissea. a supervisionare il tutto, un produttore che ironicamente si fa capire soltanto tramite un’interprete. il protagonista, per fare colpo sul produttore, lo lascia avvicinare a sua moglie. lei reagisce male e i due affrontano una crisi.

godard gestisce il rapporto di coppia (uno dei fulcri della narrazione) evitando di netto la drammaturgia: e dunque il conflitto si rende endemico, sotterraneo, non arriva mai a mettere in chiaro praticamente nulla, e la ‘battaglia’ si compone soltanto di immagini di reazioni (ironicamente, veri e propri ‘rovesci d’immagine’: non si parla di teatralità, di estremizzazioni, quanto più di realistici dico/non-dico) più che di reazioni veramente comprensibili.

il protagonista, una specie di moderno ulisse, non riesce a gestire il suo rapporto con la materia (che, essendo un film, è subito immagine): pur amando sua moglie (e qui la bardot è immediatamente un binomio immagine/materia, nel suo presentarsi come icona erotica spesso e volentieri senza alcun preavviso) è ormai piegato a delle leggi quasi meramente produttive (e dunque il rapporto con il produttore ed il regista, la schiavitù con i meccanismi economici che stanno dietro al cinema -che dominano l’immagine- subito richiama simbolicamente un rapporto tra l’uomo e ciò che -nell’uomo- gestisce il suo vivere la sua stessa vita -nel film, l’immagine/donna-) e arriva a perderla, ad essere disprezzato e schivato.

il disprezzo dell’immagine per colui che la padroneggia (o dovrebbe farlo, o vorrebbe farlo), più che una riflessione linguistica od epistemologica (comunque sempre presenti) sembra qua assumere qui dei connotati quasi religiosi: l’idea di un quasi-determinismo (nell’odissea di omero rappresentato dalle divinità, nell’odissea di godard/lang dal mezzo cinematografico) avvilente e squisitamente nichilista prende piede di continuo dalla rete di sottotesti meta-critici ed arriva ad assumere il controllo dell’intero meccanismo creativo. e così al posto della divinità è la macchina da presa (che, indicativamente, all’inizio del film inquadra proprio noi che guardiamo – altrettanto indicativamente, a volte i personaggi che parlano sembrano rivolgersi ad una platea che è immediatamente quella del reale prima ancora che quella di chi sta guardando il film) che si muove sopra l’essere umano (e lo rende immagine, lo rende vita) ed ogni cosa è già immagine: lang interpreta un regista, la bardot interpreta la sua stessa icona, l’isola di capri interpreta quella di itaca. al vertice del (quasi)paradosso teorico anche le telecamere interpretano sé stesse, in un gioco di scatole cinesi che è continuo, straniante e divertente.

il racconto di moravia si carica quindi di un valore gigantesco, artisticamente quanto antropologicamente critico. moltiplicando i piani della sua stessa semantica, il cinema di godard si rende ben distante da qualsiasi approccio emotivo di sorta, ancora una volta facendosi prima linguaggio che comunicazione (una specie di comunicazione-di-comunicazione, come poi sarà -anche se in una dimensione differente- tutto il postmoderno propriamente inteso).

[una nota tecnica: la versione italiana, mutilata e dotata di un doppiaggio ridicolo, sarebbe preferibile evitarla]

[★★★☆☆]

 


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